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Caso Bellomo, inizia la resa dei conti

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Continuano i guai per l’ex giudice, che è ristretto ai domiciliari per lo scandalo delle minigonne e rischia di dover rispondere anche di calunnia nei confronti di Giuseppe Conte, all’epoca dei fatti non ancora premier

Di Francesco Bellomo, che ormai passerà definitivamente alla storia come il “giudice delle minigonne”, ci occupammo a suo tempo in quello scorcio finale del 2017, quando lo scandalo, appena scoppiato, era arrivato al massimo della prurigine e, se si vuole, del dramma.

Già, può esserci molto di drammatico in una vicenda altrimenti boccaccesca come quella che ha avuto per protagonista l’ex giudice e (a dar retta all’autocompiaciuta autobiografia) ex enfant prodige della giurisprudenza, che non esitò a paragonarsi a Einstein in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera.

Il dramma è tutto nelle attese e nelle speranze dei molti laureati in Legge che, complice anche la crisi che ha azzerato parecchi sbocchi professionali, tentano il concorso in magistratura e sborsano fior di quattrini per frequentare corsi simili a quello tenuto dall’ex magistrato.

Francesco Bellomo beato tra le corsiste

Certo, di corsi di preparazione per aspiranti magistrati ce ne sono tantissimi, uno più prestigioso (e costoso) dell’altro e tutti frequentatissimi, anche a causa delle modalità di selezione adottate per anni, a dir poco particolari perché basate su tracce ultra specifiche, al limite del quiz.

Ma nessuno di questi corsi, almeno sulla carta, offriva le garanzie di quello di Bellomo. Che, si badi bene, non erano garanzie “culturali” in senso lato, cioè di arrivare agli scritti con una preparazione teorica forte e capacità di scrittura all’altezza. Ma garanzie speciali, grazie alle quali il candidato sarebbe stato in condizione di azzeccare i quesiti ipercavillosi, spesso fondati su sentenze uscite poco prima del concorso.

Il resto è cronaca, tra l’altro dipanata nei dettagli da tutte le principali testate italiane (e non solo): l’ex giudice è finito ai domiciliari sia per la vicenda di presunte estorsioni a sfondo sessuale in cui è implicato, sia per l’accusa di aver calunniato Giuseppe Conte, che all’epoca non era premier (e forse neppure immaginava di diventarlo) ma vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa, l’organo disciplinare che aveva preso in carico la vicenda delle minigonne.

Secondo l’accusa, Bellomo avrebbe tentato di intimidire Conte e una collega trascinandoli in giudizio con relativa richiesta di danni per presunti abusi nella gestione della vicenda, allora soprattutto disciplinare e non ancora penale, come è diventata adesso.

Ovviamente, siamo garantisti nei suoi confronti. Lo saremo fino alla Cassazione e oltre. Ma non per timore reverenziale o garantismo astratto. Ma sulla base di un ragionamento piuttosto concreto: Bellomo, in tutta la vicenda delle minigonne, non è stato un carnefice né tantomeno una vittima, come pure ha provato a dichiararsi con poca credibilità e altrettanto poco sprezzo del ridicolo. È stato un elemento di un meccanismo, la selezione dei magistrati, che ha deragliato non poco dal suo scopo istituzionale: la ricerca di personale rigoroso e preparato per assicurare continuità e competenze al potere più delicato dello Stato.

Questo meccanismo ha deragliato nei piani alti, quelli in cui si decide come (e, secondo i maligni, chi) selezionare, in ossequio all’adagio per cui il pesce puzza sempre dalla testa.

Ma questo meccanismo ha deragliato anche alla “base”, cioè tra le migliaia di aspiranti magistrati che ogni anno tentano la sorte (brutto dirlo, ma è così) alla Fiera di Roma.

Già: Bellomo, prima che scoppiasse lo scandalo, era quello che, stando ai racconti di vari testimoni oculari, si presentava in Ferrari con tanto di assistente in minigonna e scarpe di vernice ai cancelli della Fiera non appena finivano le prove della giornata per spiegare come, a suo giudizio, andassero svolte le prove.

Bellomo, prima che scoppiasse lo scandalo, era quello che propagandava teorie a base di qi e superomismo, a metà tra lo yuppismo vintage e le storie di certi fumetti, altrettanto vintage, piuttosto popolari tra i coetanei dell’ex magistrato quando erano ragazzini.

Queste tesi e il “mito” della bravura del giudice barese, prima che scoppiasse lo scandalo, facevano non poca presa tra i concorsisti. Molti dei quali hanno continuato a seguire i corsi a dispetto dell’inchiesta e delle prime, pesantissime sanzioni (la radiazione).

Già: in questa vicenda le vittime sono solo quelle che hanno denunciato. Vittime presunte, ci mancherebbe, perché occorre aspettare il verdetto definitivo. Ma di sicuro non sono vittime coloro che hanno accettato la logica “iniziatica” costituita da inner circle e dress code che, a scandalo scoppiato, ha indignato e suscitato ironie.

Già: che razza di magistrati possono uscire da questo sistema selettivo, di cui l’affaire Bellomo è solo, stando ai risultati dell’inchiesta, la metastasi più appariscente?

Ciononostante, l’ex giudice non può pagare per tutti. Non può diventare il capro espiatorio di un sistema giudiziario di cui, grazie ad altre inchieste, emergono malfunzionamenti ben più gravi, logiche molto più devianti e dinamiche di potere assai più inconfessabili di tutto ciò che gli inquirenti hanno finora attribuito a Bellomo.

Il quale, in caso di condanna, finirà di pagare responsabilità personali, ma le cui cause vanno rintracciate in un sistema che non funziona più come dovrebbe.

E questa situazione comporta un rischio ulteriore, da non sottovalutare: offrire lo spunto per riforme del terzo potere che avrebbero risultati peggiori dei mali che si vorrebbero eliminare.

Eppure, una via per uscire da questa impasse – che rischia di travolgere la magistratura e, assieme ad essa, quel che resta dei valori costituzionali – è stata già indicata: la “normalizzazione” delle tracce, iniziata da due anni a questa parte. Tracce generaliste, per consentire ai candidati di misurarsi più con gli argomenti che con la sorte. E, magari, per togliere un po’ di potere a quel business dei concorsi che impazza ovunque ma che ha nel mondo delle toghe il suo parametro per eccellenza.

Basta poco, insomma, o meno di quel che si pensi.

E, a proposito di Bellomo: qualora i processi in cui rischia di essere imputato si mettessero male, preferiremmo ricordarlo più come una ex persona di potere «rovinata dalla topa» (giusto per parafrasare il titolo dedicato da Dagospia allo scandalo delle minigonne) che come un mefistofelico manipolatore. Sarebbe davvero troppo: sia per Mefistofele sia, più semplicemente, per lo stesso Bellomo.

Saverio Paletta

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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