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Copy of Caso Tortora, il Terrone "impallinò" Portobello?

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Secondo una leggenda metropolitana che circola sul web, il giornalista pugliese sarebbe stato uno dei “sicari mediatici” di Enzo Tortora. Quanto c’è di vero in questa accusa? Per capirne di più, abbiamo spulciato i vecchi numeri di Oggi, visto che la rete è avara di informazioni, e ci siamo avvalsi dell’aiuto di Vittorio Pezzuto, autore di una importante biografia sul celebre conduttore televisivo. Aprile seguì il processo assieme a Sergio De Gregorio e realizzò il servizio fotografico sulle nozze di Gianni Melluso, uno dei pentiti che inguaiò il papà di Portobello. Forse killer non fu, ma i suoi articoli sostennero comunque le tesi dell’accusa, che sarebbero state rovesciate in Appello…

È una specie di leggenda metropolitana. Forse l’effetto confuso del gioco di specchi della rete e, in particolare, dei social, in cui le notizie e le opinioni rimbalzano, si confondono e si distorcono.

Secondo questa leggenda Pino Aprile, giornalista di lunghissimo corso, big dei rotocalchi su carta stampata e scrittore capofila del postmeridionalismo, sarebbe stato uno dei sicari mediatici di Enzo Tortora.

L’accusa, ripetuta da varie persone (che evidentemente non vogliono troppo bene al giornalista pugliese), è pesante: mette in dubbio non tanto la credibilità professionale di Aprile, ma la sua deontologia. Che non è comunque poco.

È il caso di capire cosa ci sia di vero in questa polemica, che emerge periodicamente, a volte in maniera fastidiosa ma comunque sempre inutile, nei dibattiti sul cosiddetto neborbonismo.

Dunque, il Terrone impallinò per davvero Portobello?

Per rispondere occorre analizzare l’operato di Aprile durante il maxiprocesso alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e contestualizzarlo nei sistemi, mediatico e giudiziario, dell’epoca.

Aprile ebbe all’epoca un ruolo forte in questa vicenda, visto che era responsabile della redazione romana di Oggi, dove gestì la cronaca dell’affaire Tortora o in prima persona o assieme a Sergio De Gregorio. Sì, parliamo proprio di quel De Gregorio, ma all’epoca non pensava a combinare guai e a farsi compravendere in politica, ma era titolare di un’agenzia di stampa, la Alfa Press Service, e collaborava in maniera assidua con L’Espresso e Oggi.

Capire come Oggi abbia esaminato e approfondito la vicenda di Tortora non è proprio facilissimo, perché l’archivio del celebre settimanale non è disponibile in rete e ciò spiega la nascita della leggenda metropolitana su Aprile.

Soccorre, al riguardo, il libro ormai classico di Vittorio Pezzuto: Applausi e Sputi. Le due vite di Enzo Tortora, riedito in digitale nel 2016 da Kepler Edizioni. Il nome di Pino Aprile appare varie volte nell’e book. La prima volta è a pagina 163 (dell’edizione digitale), dove Pezzuto analizza il difficile rapporto della difesa di Tortora, rappresentata dagli avvocati Raffaele Della Valle, Alberto Dall’Ora e Antonio Coppola, con gli inquirenti del Tribunale di Napoli, con i giudici istruttori Lucio Di Pietro e Felice Persia.

Scrive Pezzuto: «E invano [i tre avvocati, nda] presentano una memoria difensiva in cui domandano di conoscere esattamente gli spostamenti dei pentiti nelle varie carceri (per provare la possibilità di accordi preventivi), di acquisire agli atti i numerosi articoli scritti da Tortora contro mafia e camorra e soprattutto che vengano effettuati accertamenti fiscali e tributari sul patrimonio del loro assistito. “Se nella ‘memoria’ non c’è altro di più importante, gli argomenti della difesa si rivelano di una debolezza sconcertante”, sentenzia Pino Aprile sul settimanale Oggi».

Secondo l’autore della biografia di Tortora gli inquirenti napoletani si sarebbero quasi rifiutati di acquisire prove a discarico, che avrebbero avuto ben altro rilievo nel processo di appello. Ma contestualizziamo la sentenza di Aprile, piuttosto in linea coi desiderata dei magistrati.

L’articolo di Aprile fu pubblicato nel numero 28 di Oggi del 13 luglio 1983, con un titolo piuttosto ambiguo: Si passa dall’Australia per arrivare a Tortora.

In questo raffazzonato pastone, il giornalista pugliese scrive di tutto: smentisce anche lui l’ipotesi che il galeotto Domenico Barbaro, che si era rivolto all’inventore e presentatore di Portobello per vendere dei centrini nel celebre mercatino televisivo, volesse minacciare Tortora per una questione di droga. Tuttavia, rileva l’omonimia di questo galeotto con un altro Domenico Barbaro, all’epoca boss in auge della ’ndrangheta con consistenti affari illeciti in Australia, dove avrebbe tentato di riciclare i proventi della droga. Il tutto senza chiarire quali legami potesse avere quest’ultimo con Tortora. Il massimo che si ricava dall’articolo è un’illazione su una lettera dal contenuto sconosciuto che inchioderebbe il conduttore televisivo. Infine, il giornalista si sofferma su un dettaglio inquietante: il presunto rapporto, poi completamente smentito nel processo d’appello, tra Tortora e il trafficante egiziano Garal Gamil Ibrahim, noto come Hussein, assieme al quale il conduttore sarebbe andato a far visita a Rosetta, la sorella di Cutolo.

Segue la stoccata conclusiva, in cui Aprile, non proprio ferrato in materia di procedura (ma neppure nel diritto tout court), demolisce la memoria difensiva in maniera curiosa, non prima di aver detto che, a dispetto del riserbo degli avvocati, «Oggi è riuscito a saperne qualcosa».

È necessario contestualizzare ancora. L’articolo appena riassunto seguiva il trend della Procura, di cui veniva avallata senza alcuna critica l’azione investigativa e repressiva. Forse, si potrebbe anche concedere, per via della posta in gioco, dato che quello di Napoli era il primo maxiprocedimento contro la criminalità organizzata. Peccato solo che Oggi abbia appiattito, un po’ come tutti gli altri, il racconto di quella vicenda processuale sul solo Tortora, che non era l’unico indagato (anzi!) né quello principale. E, sempre a proposito delle richieste della difesa, sarebbe il caso di ricordare che quella sugli spostamenti dei pentiti non fosse proprio peregrina: tutt’altro.

Infatti, gli accusatori principali dell’ex conduttore furono tre: l’ex braccio destro di Cutolo, Giovanni Pandico, il killer Pasquale Barra, detto ’o animale, che prima di pentirsi aveva ucciso per conto di Cutolo il boss milanese Francis Turatello e gli aveva addentato le viscere, e un delinquente di minore caratura, Gianni Melluso, detto Gianni il Bello o Gianni Cha Cha Cha. Sin dalle prime fasi dell’inchiesta, le dichiarazioni dei pentiti coincidevano sin troppo. Che atteggiamento tenne nei loro confronti Oggi, cioè la premiata coppia AprileDe Gregorio? Sicuramente di non sfiducia.

Così nel pastone giudiziario pubblicato nel numero 26 del 29 giugno 1983, intitolato Macché droga, traffico solo in crusca. Dopo aver riportato le dichiarazioni di Anna, la sorella del conduttore, i due cronisti analizzano le cantate di Pandico e, soprattutto, di Barra. E commentano: «In 700 pagine, un vero dossier, Barra ha fatto oltre 1000 nomi di affiliati e protettori. Per ognuno, gli inquirenti hanno trovato prove schiaccianti e riscontri oggettivi». E ancora: «Le sue confessioni rappresentano oggi il più clamoroso atto di accusa contro la camorra e i suoi rappresentanti; un documento agghiacciante e completo che probabilmente segna la sconfitta definitiva di Cutolo e della sua organizzazione, anche se non si può escludere che in mezzo a tanti e tanti colpevoli sia finito anche qualche innocente. Potrebbe essere il caso, ce lo auguriamo, il caso di Enzo Tortora». La chiusa garantista sembra la classica foglia di fico, buttata lì per prudenza, visto che stona con quel che precede, cioè con il fatto che le prove ricavate dagli inquirenti siano considerate «schiaccianti».

Ma il trattamento di favore ai pentiti accusatori di Tortora andò ben oltre. Infatti, Pezzuti a pagina 282 del suo e book rievoca un episodio giornalistico piuttosto singolare: il servizio fotografico in carcere delle nozze di Gianni il Bello, detenuto Campobasso.

Ecco il riferimento: «La cerimonia viene celebrata nientemeno che dal sindaco democristiano Gerardo Litterio (è il suo atto ufficiale appena rieletto, un’ora prima ha giurato nelle mani del prefetto). Vestito azzurro e scuro firmato Valentino per lui, abito bianco costato 4 milioni di lire per lei. Rinfresco, pranzo con una quindicina di parenti stretti, taglio della torta a quattro piani. Quindi gli sposini si assentano per un “colloquio” riservato. Dinanzi al carcere una piccola folla di curiosi e giornalisti viene tenuta a debita distanza. “Nessun giornalista”, è l’ordine tassativo della magistratura. Gli agenti non hanno potuto però negare l’ingresso ai testimoni di nozze dello sposo: il giornalista Pino Aprile e il fotografo Giovanni Palombi. Guarda caso lavorano entrambi per Oggi, il settimanale al quale Melluso ha venduto in esclusiva il servizio fotografico».

Il servizio, intitolato Intanto Gianni il Bello dietro le sbarre dice sì alla sua maestra, fu pubblicato nel numero 39 di Oggi del 25 settembre 1985. Nello stesso numero De Gregorio riportava in un altro articolo (Questa sentenza dimostra che la giustizia è malata) le dichiarazioni rilasciate da Tortora, che in quel momento si trovava a Strasburgo, sul processo, che il 17 settembre sarebbe terminato con la condanna in primo grado.

Un dettaglio dà a pensare, col senno del poi: l’anno prima Tortora era diventato europarlamentare nelle file del Partito radicale e aveva trasformato la propria vicenda in una battaglia politica: è probabile che questo cambiamento di status – da plurinquisito per spaccio di droga e affiliazione camorristica a difensore dei diritti civili – avesse sortito qualche effetto anche nei rapporti con la stampa, che virò gradualmente i toni verso un garantismo piuttosto annacquato nei suoi confronti.

Ma i rapporti coi pentiti furono, per tutta la durata del processo di primo grado, piuttosto stretti. Nell’articolo Lo ha tradito Portobello (pubblicato nel numero 27 del 6 luglio 1983 con la doppia firma AprileDe Gregorio) i due giornalisti tentarono di ricostruire l’identità della donna misteriosa che avrebbe introdotto Tortora, già accusato di legami con Turatello, alla corte di Cutolo e, non paghi, intervistarono la moglie di Barra. L’aspetto peggiore di questo pastone, restano le foto del conduttore nel cortile del carcere, prese probabilmente con un teleobiettivo.

Nel numero 35 del 31 agosto 1983 De Gregorio pubblicò una corrispondenza piuttosto corposa, intitolata Ecco tutte le accuse, in cui riportava i contenuti dei verbali degli interrogatori e un’intervista a Gianni Pandico, che sfidava a confronto pubblico gli intellettuali che avevano firmato un manifesto a favore di Tortora.

Ma i due cronisti, il napoletano e il pugliese, non raggiunsero mai altri eccessi. Ad esempio, quello di Francamaria Trapani, la giornalista napoletana che aiutò Melluso a scrivere la propria autobiografia. La Trapani, val la pena di ricordare, era la consuocera di Francesco Cedrangolo, il procuratore capo di Napoli.

Poi, con l’inizio del processo d’appello, che avrebbe ribaltato la situazione e trasformato gli accusatori di Tortora in accusati (essenzialmente per calunnia) le cose iniziarono a cambiare. I cronisti, per la maggior parte, tentarono di sfilarsi da un processo in cui, fino a quel momento, avevano retto il gioco all’accusa.

E Aprile e De Gregorio? Quest’ultimo iniziò una vera e propria inversione a u, tant’è che addirittura collaborò a Giallo, l’ultimo programma condotto da Tortora prima di morire, e scrisse Morire d’ingiustizia (De Dominicis Editore, 1988), dedicato appunto all’ex, reso tale dalla malattia e dalla morte, celebre conduttore.

Sulla successiva posizione di Aprile in merito al terribile processo, non è dato sapere niente, anche perché nella rete, altrimenti prodiga di informazioni sul giornalista pugliese, in questo caso si rivela piuttosto avara. Una rimozione?

Ma la vera domanda è un’altra: che giudizio si può dare del comportamento complessivo dello scrittore pugliese che, abbandonata la cronaca, ha abbracciato la causa del revisionismo antirisorgimentale?

Ancora una volta ci soccorre Pezzuto, che fa distinzioni ben precise tra i cronisti ordinari, la manovalanza, che comunque ressero il sacco all’accusa, e le grandi firme (Bocca, Montanelli, Biagi, ecc.), che invece si schierarono sin da subito nel fronte innocentista dell’informazione.

Questi ultimi ressero con coerenza, i primi, invece, si defilarono. Tuttavia, non si può imputare ad Aprile l’omesso garantismo, ci mancherebbe.

Un garantismo di cui, tra l’altro, lo scrittore pugliese non dà prova neppure nei suoi libri storici: scrivere di storia senza essere storici è meno problematico (in fin dei conti non si scrive che dei morti) che scrivere dei vivi da giornalisti essendo giornalisti.

Per saperne di più

Il libro di Vittorio Pezzuto

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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