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Caso Bellomo, è il sistema che genera gli abusi. Riformate il concorso

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Secondo Enrico Caterini, avvocato e docente di Diritto privato presso l’Università della Calabria, lo scandalo del giudice delle minigonne è una deriva patologica di un sistema di selezione dei magistrati non proprio in linea con le esigenze di un Paese democratico. «Troppe toghe nelle commissioni. così il concorso diventa una cooptazione» e «le prove casistiche non aiutano a scegliere in maniera efficace chi dovrà amministrare la giustizia». Inoltre «è del tutto assente la valutazione dell’attitudine psicologica dei concorrenti, ricordiamoci che Bellomo subì questi rilievi quando era già magistrato». Tuttavia il problema è più generale: «Il livello dei laureati in legge si è abbassato», perciò sì alle specializzazioni postlaurea, «ma impostate sul modello delle haute école francesi». Le linee di una riforma possibile a poche ore dalla decisione del Consiglio di Stato e a pochi giorni dal concorso in magistratura.

Su Francesco Bellomo a brevissimo dovremmo avere la prima verità: quella disciplinare. A brevissimo il Consiglio di Stato, infatti, dovrà decidere sul giudice delle minigonne che confidava troppo nella sua genialità.

L’esito del procedimento, preceduto da un battage mediatico forse mai subito da un magistrato (si ricorda, per polemiche e accuse ben più gravi, il solo precedente di Corrado Carnevale, il giudice ammazzasentenze) sembra scontato. Altra cosa per quel che riguarda le inchieste aperte da più Procure nei riguardi del quasi ex consigliere per vari capi d’imputazione.

Quasi per una coincidenza beffarda del destino, tra una decina di giorni inizieranno le prove scritte del prossimo concorso in magistratura, il penultimo bandito dall’attuale governo (la prossima prova è prevista per l’estate).

Bellomo è finito nei guai proprio per il suo ruolo di direttore scientifico della società Diritto e Scienza e di docente della Scuola QI, da lui stesso ideata, in cui teneva corsi di preparazione per il concorso…

C’è da dire altro?

«La vicenda di Bellomo sembra purtroppo il caso estremo di un sistema che mostra crepe vistose nel suo insieme». Parla Enrico Caterini (a destra nella foto), docente di Diritto privato presso l’Università della Calabria.

Sembra soltanto?

Dico sembra perché ancora su tutta questa storia non è emersa una verità processuale che confermi la gravità delle accuse e delle testimonianze. Nelle prossime ore conosceremo la decisione del Consiglio di Stato. Ma anche da questa ricaveremmo solo la scorrettezza della condotta di Bellomo. Che non è poco. Per poter dire l’ultima parola, e quindi considerare l’intera vicenda come un semplice fatto di malcostume oppure altro, occorre attendere che gli inquirenti si pronuncino in maniera convincente.

Non dovremo mica attendere anche in questo caso il famoso terzo grado di giudizio per farci un’idea su questa storia?

Certo che no: a livello di opinione pubblica basta quel che i media hanno riportato. La grande danneggiata di questa vicenda resta comunque la magistratura.

Ma questa degenerazione si poteva evitare?

E come? Ricordiamoci che tutto è partito da denunce ben precise. Se non ci fossero state, saremmo rimasti ai pettegolezzi che i giornalisti si sono dimostrati abili a rintracciare a scandalo scoppiato. Il problema è più profondo e radicato, perché è insito nella struttura del concorso. Se questo fosse impostato diversamente, difficilmente personaggi come Bellomo avrebbero avuto certi ruoli e, quindi, certe possibilità, tra l’altro grazie a strutture private.

Quali sono i problemi del concorso in magistratura?

Sono di due tipi, l’uno conseguenza dell’altro. Il primo deriva dalla composizione delle commissioni, formate in larga prevalenza da magistrati. Questo criterio è tutt’altro che funzionale al miglioramento della selezione dei magistrati, in particolare perché impedisce la correzione di un errore di fondo, che trasforma il concorso quasi in un modo con cui la magistratura coopta sé stessa. Se i magistrati devono giudicare la società, è giusto che la società, attraverso i suoi esperti, giudichi gli aspiranti magistrati. Perciò, più esponenti del mondo accademico e più esponenti dell’avvocatura. Tra di essi vi sono fior di giuristi che nulla hanno da invidiare alle toghe. Ecco, una cosa è l’autogoverno dei giudici. Ma questo non può trasformarsi in extraterritorialità: ne va della democraticità del nostro ordinamento.

Il secondo ordine di problemi?

Come dicevo, dipende dal primo: le tracce delle prove scritte si basano nella stragrande maggioranza dei casi sulle pronunce della Cassazione. Il risultato è stato oggetto di molte critiche di fonti ben più autorevoli di me: prove di tipo casistico in cui ciò che importava era ricordare i precedenti della Cassazione più che la capacità di ragionamento giuridico e la preparazione generale dei candidati.

E dire che non siamo neppure un sistema di common law…

Io direi che siamo così appiattiti sul principio del precedente da essere diventati quasi indistinguibili, almeno per gli aspetti peggiori. Per il resto, mi pare invece che i magistrati del mondo anglosassone si siano dimostrati più volte capaci di una critica creativa ai precedenti e di utilizzarli per quello che sono, cioè dei riferimenti, senza tuttavia farsene condizionare, come invece accade da noi. Poi, legata a questi due problemi, c’è un’altra questione.

Quale?

L’idoneità ad amministrare la giustizia, l’adeguatezza dei magistrati a svolgere il giudizio, la quale è un’attitudine psicologica che non viene mai verificata. Non mi meraviglio, per tornare al caso da cui siamo partiti, che Bellomo sarebbe stato considerato inadatto a giudicare dai suoi stessi colleghi.

Tuttavia, la trasformazione delle prove scritte in quiz complicati ha aiutato non poco le scuole private come quella di Bellomo.

Le scuole private per la preparazione al concorso in magistratura esistono da anni. Però una volta erano un’altra cosa: personaggi di grande caratura come Galli e Capozzi insegnavano soprattutto il sistema giudiziario, il suo funzionamento e le sue regole. Solo dopo si occupavano dei casi e dei precedenti. Insegnavano, in una parola, a ragionare. Cosa che non mi pare accada oggi, come dimostra l’abbassamento del livello medio dei magistrati. Basta leggere alcune sentenze e ordinanze per rendersene conto: a partire dalla sciatteria del linguaggio in cui sono redatte c’è di che mettersi le mani ai capelli.

Le prove scritte dello scorso luglio sembrano segnare un’inversione di sentenza, visto che le tracce sono state impostate su temi più generali e di ampio respiro.

Il segnale c’è ed è positivo. Ma una rondine, tra l’altro tardiva visto che parliamo di luglio, non fa primavera.

Però il ministro Orlando si è espresso a favore di una riforma del concorso e ha annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta su queste scuole private.

Altre ottime intenzioni. Speriamo che abbiano un seguito efficace, lo dico senza ironia e incrociando le dita.

Il sottosegretario Migliore si è dimostrato possibilista sulla richiesta, avanzata dalla commissione Vietti e ribadita dal presidente dell’Anm Eugenio Abamonte, di consentire l’accesso al concorso in magistratura anche ai semplici laureati. Ricordiamo che, al momento, può candidarsi al concorso solo chi ha frequentato le scuole di specializzazione postlaurea oppure chi è abilitato alla professione di avvocato.

La trovo una proposta a dir poco pericolosa per due motivi. Il primo è quantitativo, perché gli iscritti al concorso raddoppierebbero. Il secondo è qualitativo. Parlo contro gli interessi della categoria di cui faccio parte: il livello delle Università si è così abbassato che trovo davvero difficile, oggi come oggi, l’ipotesi che un semplice laureato sia idoneo a presentarsi al concorso. I filtri ci vogliono, eccome.

Ma quelli che ci sono, evidentemente, non funzionano a dovere.

Occorre distinguere le ipotesi in cui non sono stati fatti funzionare da quelle di mancato adeguamento. Allora, l’ideale sarebbe un modello ispirato alle haute école francesi, che completano e integrano la preparazione dei laureati in direzione della professione che si vuole intraprendere. Sulla base di questo parametro potrebbero essere integrati, mediante qualche forma di parificazione, anche i corsi privati. Magari con la speranza che, in entrambi i casi, non vi sia un’eccessiva presenza di magistrati. Ripeto: la magistratura è un corpo dello Stato e non una corporazione, perciò non può e non deve autoselezionarsi. Ne va della democrazia, che è un bene di tutti.

Il suo è un libro dei sogni?

Non è un libro dei sogni e, soprattutto, non è mio. L’alternativa è continuare con le selezioni a terno a lotto. E allora non meravigliamoci se e quando si verificano scandali come quello su cui deve giudicare il Consiglio di Stato.

 (a cura di Saverio Paletta)

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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