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Sulla Poletti Family. Dalle coop rosse al governo

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La reazione di una ragazza che vive all’estero ha sbugiardato il ministro del lavoro

E ora spuntano gli altarini

 Ancora non si è placata l’eco del liscibusso mediatico somministrato via Facebook da Lara Lago al ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Il post con cui la ragazza («Una dei 100mila giovani che se n’è andata dall’Italia») ha replicato a muso duro alle infelici uscite del ministro è esploso: 80mila visite in poche ore e voglia di crescere, visto che in pochi giorni ha sfondato i 150mila like e ricevuto circa 20mila commenti, quasi tutti positivi.

Nel frattempo Poletti è finito nel tritacarne anche per questioni familiari. Ci riferiamo alla vicenda, abbastanza nota, di suo figlio Manuel, direttore di un settimanale che riceve fondi pubblici. Massima solidarietà per lui che, vittima dell’onda lunga della rabbia suscitata dalla frasaccia di papà, è stato oggetto di contumelie e minacce di morte.

Però c’è da dire che poteva dire meno bugie, perché essere figlio è un peso come essere padre, specie se si porta un cognome importante.

Manuel, direttore di Settesere qui ha dichiarato alla Stampa (mica un giornale di provincia come il suo), a scandaletto scoppiato: «È successo nel 2013, e mio padre neppure pensava a fare politica».

Bugia. Papà Giuliano, nel 2013 era presidente dell’Alleanza delle Cooperative Italiane dopo essere stato presidente nazionale di Legacoop dal 2002. Se non è politica, poco ci manca, visto che parliamo di cooperative rosse. Eppoi, a far politica l’attuale ministro del Lavoro, designato da Renzi e confermato da Gentiloni, aveva già pensato: dopo una carriera nel Pci imolese e ruoli importanti nell’amministrazione locale, il Nostro aveva continuato nel Pds come consigliere provinciale.

Chiaro: meglio per lui è stata la carriera nelle coop, su cui è stato detto e scritto di tutto e di più e spesso in termini non lusinghieri. Per questo si può rispondere a Poletti jr con una domanda banale banale: se non ci fosse stato il legame storico tra coop rosse, Pci (prima) e partiti postcomunisti (Pd incluso) poi, papà Giuliano, senz’altro in gamba, avrebbe potuto fare la brillante carriera che l’ha portato al governo? Quanti imprenditori “normali” sono diventati ministri in un settore in cui si sarebbero dovuti occupare dei problemi della controparte, cioè dei lavoratori?

Lasciamo sospesa la domanda, perché le vicende della famiglia Poletti, è chiaro, sono solo un pretesto per altre riflessioni.

Che riguardano i giovani e non solo che hanno applaudito il superpost della Lago. Poletti e Gentiloni hanno un’estrazione laica e ciò gli avrà impedito di leggere a fondo l’ultimo censimento con cui la cattolicissima Caritas ha evidenziato la piaga dell’emigrazione 2.0.

In realtà non ci sarebbe nulla di strano nel fatto che persone in età attiva e riproduttiva lascino i propri posti di origine per cercare altrove una sistemazione più idonea. Capita ovunque in Europa e il diritto alla libera circolazione garantito dall’Ue serve proprio ad agevolare questo processo. Il problema, per l’Italia, è il come. Forse non è vero che emigrano i migliori e, tra quelli che emigrano, ce ne sono parecchi che non supererebbero in nessun luogo un serio vaglio meritocratico. Tuttavia, è sicuro che la stragrande maggioranza dei migranti 2.0 è costituita da persone che, a parità di opportunità, avrebbero dato un contributo superbo al nostro Paese e al suo sistema economico, da cui, invece, sono stati espulsi senza troppi complimenti.

Facciamoci qualche domanda, anche a nome dei tanti che sono tornati per le feste: chi diventa ricercatore all’università o dirigente e responsabile d’azienda non appena varca i confini nazionali, ha diritto o no di dirne quattro al sistema universitario e imprenditoriale italiano e a chi li rappresenta in tutte le sedi? Chi, fino al giorno prima, sudava la vita in qualche call center o tentava di fare il proprio mestiere in condizioni improponibili e altrove viene gratificato senza parentele, lobby e raccomandazioni, ha il diritto o no di mandare al diavolo chi l’ha cacciato a calci dal suo paese?

E attenzione: non è che questo processo di espulsione delle migliori energie non abbia avuto le sue brave ricadute negative. Abbiamo citato i settori dell’università e del lavoro non a caso, visto che gli indicatori sullo stato della ricerca scientifica e della salute delle imprese sono in rosso.

Non vogliamo fare di tutta l’erba un fascio, ci mancherebbe. Ci sono imprenditori che resistono a tutto, compreso questo governo, e ricercatori che riescono a lavorare nonostante i mille limiti del sistema baronale in cui operano.

Però una cosa è prendere atto della situazione e un’altra agire. E gli ultimi governi hanno agito male: hanno dato contributi e sgravi alle aziende, hanno abbassato le tutele del lavoro senza controllare la tenuta etica del sistema delle nostre imprese, che non è mai stata stagna e ora fa passare di tutto e di più.

Si parla di “crisi” in maniera autoassolutoria. Però tutta l’Europa è in crisi e ciò non impedisce ad altri paesi europei in situazioni precarie come la nostra, ad esempio la Spagna, di assorbire le energie di cui il sistema italiano, preoccupato di tutto fuorché di produrre, fa volentieri a meno. Soprattutto al Sud e nelle province (anche quelle già virtuose delle regioni “rosse”). Da un lato, molti “cummenda” praticano allegramente il dumping in quei paesi dell’Est Europa grazie anche agli accordi incautamente firmati da Prodi. Dall’altro, c’è una pletora di personaggi non proprio chiarissimi e meritevoli che campano di espedienti sulle spalle del prossimo, che sfruttano due volte: sottopagando o pagando al nero i propri dipendenti e suggendo a piene labbra dai finanziamenti pubblici. A volte con modalità, diciamola tutta, discutibili: può bastare l’esempio dell’emergenza profughi per evitare altre considerazioni. Ecco, che volete che se ne facciano costoro dei giovani che hanno buttato tempo sui libri e negli innumerevoli stage che, il più delle volte, sono stati solo l’occasione per sfruttare gratis il lavoro del prossimo?

Non tutti i giovani che scappano – perché da un sistema così c’è solo da scappare – sono i migliori. Ma non è meglio di loro chi gli fa la morale. Non era meglio chi li chiamava bambocci né sono migliori gli esponenti dell’attuale governo: non sono più i professori di Monti, in compenso fanno parte a pieno titolo della Casta che sgoverna l’Italia senza avere le competenze di chi li ha preceduti. Sono un mix di quei radical chic e noveaux riches che prosperano come sempre nei sistemi in crisi.

Allora: fate e disfate come volete. Ma non fate la morale a nessuno. Non ve lo potete permettere. E, per concludere, una raccomandazione: basta bugie.

Ancora non si è placata l’eco del liscibusso mediatico somministrato via Facebook da Lara Lago al ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Il post con cui la ragazza («Una dei 100mila giovani che se n’è andata dall’Italia») ha replicato a muso duro alle infelici uscite del ministro è esploso: 80mila visite in poche ore e voglia di crescere, visto che in pochi giorni ha sfondato i 150mila like e ricevuto circa 20mila commenti, quasi tutti positivi.

Nel frattempo Poletti è finito nel tritacarne anche per questioni familiari. Ci riferiamo alla vicenda, abbastanza nota, di suo figlio Manuel, direttore di un settimanale che riceve fondi pubblici. Massima solidarietà per lui che, vittima dell’onda lunga della rabbia suscitata dalla frasaccia di papà, è stato oggetto di contumelie e minacce di morte.

Però c’è da dire che poteva dire meno bugie, perché essere figlio è un peso come essere padre, specie se si porta un cognome importante.

Manuel, direttore di Settesere qui ha dichiarato alla Stampa (mica un giornale di provincia come il suo), a scandaletto scoppiato: «È successo nel 2013, e mio padre neppure pensava a fare politica».

Bugia. Papà Giuliano, nel 2013 era presidente dell’Alleanza delle Cooperative Italiane dopo essere stato presidente nazionale di Legacoop dal 2002. Se non è politica, poco ci manca, visto che parliamo di cooperative rosse. Eppoi, a far politica l’attuale ministro del Lavoro, designato da Renzi e confermato da Gentiloni, aveva già pensato: dopo una carriera nel Pci imolese e ruoli importanti nell’amministrazione locale, il Nostro aveva continuato nel Pds come consigliere provinciale.

Chiaro: meglio per lui è stata la carriera nelle coop, su cui è stato detto e scritto di tutto e di più e spesso in termini non lusinghieri. Per questo si può rispondere a Poletti jr con una domanda banale banale: se non ci fosse stato il legame storico tra coop rosse, Pci (prima) e partiti postcomunisti (Pd incluso) poi, papà Giuliano, senz’altro in gamba, avrebbe potuto fare la brillante carriera che l’ha portato al governo? Quanti imprenditori “normali” sono diventati ministri in un settore in cui si sarebbero dovuti occupare dei problemi della controparte, cioè i lavoratori?

Lasciamo sospesa la domanda, perché le vicende della famiglia Poletti, è chiaro, sono solo un pretesto per altre riflessioni.

Che riguardano i giovani e non solo che hanno applaudito il superpost della Lago. Poletti e Gentiloni hanno un’estrazione laica e ciò gli avrà impedito di leggere a fondo l’ultimo censimento con cui la cattolicissima Caritas ha evidenziato la piaga dell’emigrazione 2.0.

In realtà non ci sarebbe nulla di strano nel fatto che persone in età attiva e riproduttiva lascino i propri posti di origine per cercare altrove una sistemazione più idonea. Capita ovunque in Europa e il diritto alla libera circolazione garantito dall’Ue serve proprio ad agevolare questo processo. Il problema, per l’Italia, è il come. Forse non è vero che emigrano i migliori e, tra quelli che emigrano, ce ne sono parecchi che non supererebbero in nessun luogo un serio vaglio meritocratico. Tuttavia, è sicuro che la stragrande maggioranza dei migranti 2.0 è costituita da persone che, a parità di opportunità, avrebbero dato un contributo superbo al nostro Paese e al suo sistema economico, da cui, invece, sono stati espulsi senza troppi complimenti.

Facciamoci qualche domanda, anche a nome dei tanti che sono tornati per le feste: chi diventa ricercatore all’università o dirigente e responsabile d’azienda non appena varca i confini nazionali, ha diritto o no di dirne quattro al sistema universitario e imprenditoriale italiano e a chi li rappresenta in tutte le sedi? Chi, fino al giorno prima, sudava la vita in qualche call center o tentava di fare il proprio mestiere in condizioni improponibili e altrove viene gratificato senza parentele, lobby e raccomandazioni, ha il diritto o no di mandare al diavolo chi l’ha cacciato a calci dal suo paese?

E attenzione: non è che questo processo di espulsione delle migliori energie non abbia avuto le sue brave ricadute negative. Abbiamo citato i settori dell’università e del lavoro non a caso, visto che gli indicatori sullo stato della ricerca scientifica e della salute delle imprese sono in rosso.

Non vogliamo fare di tutta l’erba un fascio, ci mancherebbe. Ci sono imprenditori che resistono a tutto, compreso questo governo, e ricercatori che riescono a lavorare nonostante i mille limiti del sistema baronale in cui operano.

Però una cosa è prendere atto della situazione e un’altra agire. E gli ultimi governi hanno agito male: hanno dato contributi e sgravi alle aziende, hanno abbassato le tutele del lavoro senza controllare la tenuta etica del sistema delle nostre imprese, che non è mai stata stagna e ora fa passare di tutto e di più.

Si parla di “crisi” in maniera autoassolutoria. Però tutta l’Europa è in crisi e ciò non impedisce ad altri paesi europei in situazioni precarie come la nostra, ad esempio la Spagna, di assorbire le energie di cui il sistema italiano, preoccupato di tutto fuorché di produrre, fa volentieri a meno. Soprattutto al Sud e nelle province (anche quelle già virtuose delle regioni “rosse”). Da un lato, molti “cummenda” praticano allegramente il dumping in quei paesi dell’Est Europa grazie anche agli accordi incautamente firmati da Prodi. Dall’altro, c’è una pletora di personaggi non proprio chiarissimi e meritevoli che campano di espedienti sulle spalle del prossimo, che sfruttano due volte: sottopagando o pagando al nero i propri dipendenti e suggendo a piene labbra dai finanziamenti pubblici. A volte con modalità, diciamola tutta, discutibili: può bastare l’esempio dell’emergenza profughi per evitare altre considerazioni. Ecco, che volete che se ne facciano costoro dei giovani che hanno buttato tempo sui libri e negli innumerevoli stage che, il più delle volte, sono stati solo l’occasione per sfruttare gratis il lavoro del prossimo?

Non tutti i giovani che scappano – perché da un sistema così c’è solo da scappare – sono i migliori. Ma non è meglio di loro chi gli fa la morale. Non era meglio chi li chiamava bambocci né sono migliori gli esponenti dell’attuale governo: non sono più i professori di Monti, in compenso fanno parte a pieno titolo della Casta che sgoverna l’Italia senza avere le competenze di chi li ha preceduti. Sono un mix di quei radical chic e noveaux riches che prosperano come sempre nei sistemi in crisi.

Allora: fate e disfate come volete. Ma non fate la morale a nessuno. Non ve lo potete permettere. E, per concludere, una raccomandazione: basta bugie.

Ancora non si è placata l’eco del liscibusso mediatico somministrato via Facebook da Lara Lago al ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Il post con cui la ragazza («Una dei 100mila giovani che se n’è andata dall’Italia») ha replicato a muso duro alle infelici uscite del ministro è esploso: 80mila visite in poche ore e voglia di crescere, visto che in pochi giorni ha sfondato i 150mila like e ricevuto circa 20mila commenti, quasi tutti positivi.

Nel frattempo Poletti è finito nel tritacarne anche per questioni familiari. Ci riferiamo alla vicenda, abbastanza nota, di suo figlio Manuel, direttore di un settimanale che riceve fondi pubblici. Massima solidarietà per lui che, vittima dell’onda lunga della rabbia suscitata dalla frasaccia di papà, è stato oggetto di contumelie e minacce di morte.

Però c’è da dire che qualche bugia se la poteva risparmiare, perché essere figlio è un peso come essere padre, specie se si porta un cognome importante.

Manuel, direttore di Settesere, ha dichiarato alla Stampa (mica a un giornale di provincia come il suo), a scandaletto scoppiato: «È successo nel 2013, e mio padre neppure pensava a fare politica».

Bugia. Papà Giuliano, nel 2013 era presidente dell’Alleanza delle Cooperative Italiane dopo essere stato presidente nazionale di Legacoop dal 2002. Se non è politica, poco ci manca, visto che parliamo di cooperative rosse. Eppoi, a far politica l’attuale ministro del Lavoro, designato da Renzi e confermato da Gentiloni, aveva già pensato: dopo una carriera nel Pci imolese e ruoli importanti nell’amministrazione locale, il Nostro aveva continuato nel Pds come consigliere provinciale.

Chiaro: meglio per lui è stata la carriera nelle coop, su cui è stato detto e scritto di tutto e di più e spesso in termini non lusinghieri. Per questo si può rispondere a Poletti jr con una domanda banale banale: se non ci fosse stato il legame storico tra coop rosse, Pci (prima) e partiti postcomunisti (Pd incluso) poi, papà Giuliano, senz’altro in gamba, avrebbe potuto fare la brillante carriera che l’ha portato al governo? Quanti imprenditori “normali” sono diventati ministri in un settore in cui si sarebbero dovuti occupare dei problemi della controparte, cioè i lavoratori?

Lasciamo sospesa la domanda, perché le vicende della famiglia Poletti, è chiaro, sono solo un pretesto per altre riflessioni.

Che riguardano i giovani e non solo che hanno applaudito il superpost della Lago. Poletti e Gentiloni hanno un’estrazione laica e ciò gli avrà impedito di leggere a fondo l’ultimo censimento con cui la cattolicissima Caritas ha evidenziato la piaga dell’emigrazione 2.0.

In realtà non ci sarebbe nulla di strano nel fatto che persone in età attiva e riproduttiva lascino i propri posti di origine per cercare altrove una sistemazione più idonea. Capita ovunque in Europa e il diritto alla libera circolazione garantito dall’Ue serve proprio ad agevolare questo processo. Il problema, per l’Italia, è il come. Forse non è vero che emigrano i migliori e, tra quelli che emigrano, ce ne sono parecchi che non supererebbero in nessun luogo un serio vaglio meritocratico. Tuttavia, è sicuro che la stragrande maggioranza dei migranti 2.0 è costituita da persone che, a parità di opportunità, avrebbero dato un contributo superbo al nostro Paese e al suo sistema economico, da cui, invece, sono stati espulsi senza troppi complimenti.

Facciamoci qualche domanda, anche a nome dei tanti ragazzi che sono tornati a ripopolare le loro città e i loro paesi per le feste: chi diventa ricercatore all’università o dirigente e responsabile d’azienda non appena varca i confini nazionali, ha diritto o no di dirne quattro al sistema universitario e imprenditoriale italiano e a chi li rappresenta in tutte le sedi? Chi, fino al giorno prima, sudava la vita in qualche call center o tentava di fare il proprio mestiere in condizioni improponibili e altrove viene gratificato senza parentele, lobby e raccomandazioni, ha il diritto o no di mandare al diavolo chi l’ha cacciato a calci dal suo paese?

E attenzione: non è che questo processo di espulsione delle migliori energie non abbia avuto le sue brave ricadute negative. Abbiamo citato i settori dell’università e del lavoro non a caso, visto che gli indicatori sullo stato della ricerca scientifica e della salute delle imprese sono in rosso.

Non vogliamo fare di tutta l’erba un fascio, ci mancherebbe. Ci sono imprenditori che resistono a tutto, compreso questo governo, e ricercatori che riescono a lavorare nonostante i mille limiti del sistema baronale in cui operano.

Però una cosa è prendere atto della situazione e un’altra agire. E gli ultimi governi hanno agito male: hanno dato contributi e sgravi alle aziende, hanno abbassato le tutele del lavoro senza controllare la tenuta etica del sistema delle nostre imprese, che non è mai stata stagna e ora fa passare di tutto e di più.

Si parla di “crisi” in maniera autoassolutoria. Però tutta l’Europa è in crisi e ciò non impedisce ad altri paesi europei in situazioni precarie come la nostra, ad esempio la Spagna, di assorbire le energie di cui il sistema italiano, preoccupato di tutto fuorché di produrre, fa volentieri a meno. Soprattutto al Sud e nelle province (anche quelle già virtuose delle regioni “rosse”). Da un lato, molti “cummenda” praticano allegramente il dumping in quei paesi dell’Est Europa grazie anche agli accordi incautamente firmati da Prodi. Dall’altro, c’è una pletora di personaggi non proprio chiarissimi e meritevoli che campano di espedienti sulle spalle del prossimo, che sfruttano due volte: sottopagando o pagando al nero i propri dipendenti e suggendo a piene labbra dai finanziamenti pubblici. A volte con modalità, diciamola tutta, discutibili: può bastare l’esempio dell’emergenza profughi per evitare altre considerazioni. Ecco, che volete che se ne facciano costoro dei giovani che hanno buttato tempo sui libri e negli innumerevoli stage che, il più delle volte, sono stati solo l’occasione per sfruttare gratis il lavoro del prossimo?

Non tutti i giovani che scappano – perché da un sistema così c’è solo da scappare – sono i migliori. Ma non è meglio di loro chi gli fa la morale. Non era meglio chi li chiamava bambocci né sono migliori gli esponenti dell’attuale governo: non sono più i professori di Monti, in compenso fanno parte a pieno titolo della Casta che sgoverna l’Italia senza avere le competenze di chi li ha preceduti. Sono un mix di quei radical chic e noveaux riches che prosperano come sempre nei sistemi in crisi.

 Allora: fate e disfate come volete. Ma non fate la morale a nessuno. Non ve lo potete permettere. E, per concludere, una raccomandazione: basta bugie.

 Saverio Paletta

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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